2012 / pp. 128 / € 13,00 € 12,35
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«Se è vero che le vicende della sua vita sono parte integrante dell’importanza di Socrate, si deve comunque dare tutto il rilievo possibile al fatto che egli morì assassinato» dichiara perentoriamente Manlio Sgalambro. Tuttavia Platone «omette pietosamente quella parola», e dal canto suo Nietzsche afferma – certo a ragione – che «Socrate volle morire». Ma chi desidera morire, osserva Sgalambro, «si trova intrappolato in una insana contraddizione», giacché nello stesso tempo vuole vivere. E così fu anche per Socrate, che delegò infatti il compito a un «benefattore» (euergetikós) – così egli definì l’assassino – e con ciò introdusse una volta per tutte nella filosofia la figura dell’omicida. Eppure la speculazione filosofica ha per lo più evitato di porsi le domande cruciali che ne derivano: quale mistero cela il delitto in se stesso? Chi è l’assassino nella sua essenza? Domande che invece non teme di affrontare qui Sgalambro, tenace esploratore delle zone impervie del pensiero, spingendo lo sguardo verso quel punto dove l’espressione «“L’uomo è mortale” non significa in primis che “l’uomo muore” – insigne banalità concettuale –, ma che l’uomo è datore di morte».