Alberto Savinio
Palchetti romani
Adelphi eBook
2019, pp. 442, 16 tavv. f.t.
isbn: 9788845981395
In questo volume sono per la prima volta raccolte tutte le cronache teatrali che Savinio scrisse per il settimanale «Omnibus», diretto da Leo Longanesi, fra il 1937 e il 1939. In quel periodo sfilarono dinanzi al suo occhio di spettatore non complice tutte le glorie e le miserie del teatro italiano, dai testi rutilanti del «bardo» D’Annunzio (e del «bardo in seconda» Sem Benelli) alle «freddure» del varietà, dai Giganti della montagna di Pirandello a Villafranca di Giovacchino Forzano, inframezzati dalle obbligatorie pochades, dai Rostand, dagli Shaw, dai Rattigan, dai Bernstein, oltre che da qualche Plauto, Shakespeare e Lope de Vega. Quanto agli attori, andavano dal vegliardo Ermete Zacconi all’esordiente Anna Magnani, e fra l’uno e l’altra – oltre all’aleggiante ricordo della Duse – troviamo davvero tutti: da Benassi alla Morelli, da Ricci alla Pagnani, da Dina Galli ai De Filippo, dalla Gramatica alla Melato, da Macario a Tòfano.
Savinio fu un grande spettatore e testimone di quel teatro innanzitutto perché andava a vederlo malvolentieri. Per una sua vasta parte, il teatro è l’involontario e momentaneo mettersi in scena di una civiltà: e Savinio sentiva acutamente il tanfetto stantio, l’orrenda «sanità» di gran parte della civiltà italiana in quegli anni. I nostri più celebri attori gli apparivano, quasi tutti, fatalmente «pensosi», inabili dunque alla «frivolità», da lui definita «la qualità di più difficile acquisto», che «non viene se non alla sera di una lunga giornata di fatica». Di quella «frivolità» sono invece esempio supremo queste cronache: impaziente, esilarante, perfido, Savinio procede per accostamenti fulminei, presentati ogni volta come fossero ovvi: così, grazie a lui, capiamo il profondo legame fra Ermete Zacconi e Shirley Temple; o la «stretta affinità fra la recitazione di Benassi e le decorazioni di ferro battuto che adornano le porte del teatro Eliseo» (non ancora ristrutturato); o il nesso fra il «grande stile» di Ruggero Ruggeri e «quello delle coppe con le quali erano premiati i vincitori dei concorsi ippici intorno al 1900». Ma l’ironia non faceva velo, in Savinio, all’equità, che gli permetteva di individuare con chiaroveggenza le peculiarità dei vari talenti. Quanto ai testi, per uno spettatore come Savinio, che vedeva nel Racconto d’inverno di Shakespeare il suo ideale «spettacolo di varietà», era una soave tortura ascendere all’Alta montagna di Salvator Gotta. Ma al senso di sorda oppressione che spesso emanava dalla scena Savinio poneva rimedio guardandosi intorno, distraendosi, divagando, con quella sua felice infedeltà alle forme che gli permetteva di «passare da una all’altra come una volta, di posta in posta, si cambiavano i cavalli». Allora poteva rivelarglisi la visione di gran lunga più grandiosa: il pubblico. Nessuno degli spettacoli di quegli anni ha la maestosa, greve intensità del pubblico di una serata di Govi, quale Savinio, cronista visionario, ci ha descritto: «Sembrava un’assemblea di divinità egizie, metà uomini e metà animali. Fronti aggrottate sulle quali calava una capigliatura fitta come il muschio, occhi acquosi e invasi dalle palpebre, mani enormi posate sulle ginocchia come costate di manzo sul marmo del macellaio, spalle a mappamondo, cosce a condutture del gas, e un ansimare profondo di ruminanti di notte nella stalla».