
2019 / pp. 143 / € 17,00 € 16,15
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Narrativa contemporanea
1978 / pp. 148 / € 0,00 -
Adelphi eBook
2019 / pp. 148 / € 8,99
Nel 1973, quando apparve da Adelphi I due allegri indiani, l’aggettivo demenziale non era ancora entrato nel lessico della critica italiana, né letteraria né cinematografica né musicale: il primo film dei Monty Python sarebbe stato distribuito solo un anno dopo, Hellzapoppin’ e La guerra lampo dei fratelli Marx erano noti a una sparuta minoranza di cinefili. Per di più, Rodolfo Wilcock era un ospite assai singolare della nostra letteratura – per non dire un alieno. Cresciuto alla scuola di Borges, già autore di parecchi libri nel suo Paese, si era reinventato come scrittore in una lingua, l’italiano, che aveva a sua volta reinventato con una sfrenatezza paragonabile solo a quella che Nabokov aveva inoculato nella lingua inglese. Forse per questo ci sono voluti anni prima che Wilcock venisse riconosciuto per quello che è: un maestro del fantastico e del grottesco – e un maestro della prosa italiana. I due allegri indiani si potrebbe definire un «romanzo rivista», nel doppio senso della parola: 1, perché è articolato nei trenta numeri della rivista «Il Maneggio», diretta e redatta dal protagonista del romanzo stesso, che muta continuamente nome; 2, perché ogni numero di questa rivista è come un susseguirsi esilarante di sketch di avanspettacolo, il cui autore fosse però un genio della satira. Gli indiani del romanzo sono da intendere, infatti, per lo più come italiani: come scrisse Enzo Siciliano, «la babele irrefrenabile dei referti, l’insensatezza programmatica dei trenta episodi che dovrebbero comporre il romanzo, concernono il costume italiano, i vizi del vivere all’italiana». Ma attenzione: I due allegri indiani è soprattutto, per il lettore, una fonte continua di divertimento: si ride a ogni pagina, a ogni episodio, a ogni sberleffo, a ogni nuova invenzione verbale.