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«Corpo estraneo» o «problema insoluto» della filosofia nietzscheana, la dottrina «dell’eterno ritorno dell’uguale» è tanto citata quanto misconosciuta. Anche nella trattazione di Heidegger, non è difficile riconoscere elementi funzionali al pensiero dell’interprete. La complessa lettura di Severino – che fra l’altro discute a fondo l’esegesi di Heidegger – scende nella dimensione più inaccessibile del pensiero di Nietzsche, e ha perciò, anzitutto, il merito di restituire l’eterno ritorno al lettore che voglia avvicinar la nuda, ipnotica vertigine ontologica. Applicando il suo sguardo analitico a tutta la costellazione filosofica disposta da Nietzsche intorno al movimento circolare dell’anello, Severino giunge a scorgere nell’eterno ritorno la conseguenza inevitabile della fede nel divenire e cioè della fede nella morte di Dio; d’altra parte questa inevitabilità è anche la forma estrema assunta dal nichilismo quale Severino lo concepisce.
Con la dottrina dell’eterno ritorno Nietzsche porta al suo «culmine» il carattere costitutivo non solo della filosofia contemporanea, ma della stessa civiltà della tecnica, cioè «la distruzione inevitabile della tradizione filosofica e dell’intera tradizione dell’Occidente». L’eterno ritorno, come «estrema approssimazione del mondo del divenire al mondo dell’essere», ha fatto emergere «la punta della montagna di ghiaccio» che vaga nelle acque profonde del pensiero contemporaneo. La montagna è la follia del divenire come convinzione che le cose vengano dal nulla per ritornarvi: l’abnorme «follia dell’Occidente» da cui tutto il pensiero di Severino – il pensiero della «Gioia», ovvero del destino della verità immutabile dell’essere – ha cercato e cerca di «svegliarci» e «disincantarci». Già da queste osservazioni si può arguire che L’anello del ritorno è destinato ad assumere una posizione centrale fra le opere teoretiche del suo autore.