Colette
Il puro e l’impuro
Biblioteca Adelphi, 98
1980, 4ª ediz., pp. 133
isbn: 9788845904318
Una fumeria d’oppio parigina, col suo clima di «spaventosa pace dei sensi», fa da soglia a «questo libro che, tristemente, parlerà del piacere». E, come morbide allucinazioni, da quel luogo sembrano emanare, inanellate in volute di fumo, storie e figure: una generosa simulatrice erotica, «esperta di inganni e di delicatezze», un don Giovanni commovente e sinistro, vittima austera della sua Causa, la Gomorra parigina dei primi anni del Novecento, punteggiata da personaggi leggendari come Nathalie Clifford Barney, Renée Vivien, la marchesa de Morny, e di fronte ad essa l’«intatta, immensa, eterna Sodoma», confidenze lancinanti, tradimenti e seduzioni, patrimoni e onorabilità dissipati per giovani delinquenti, riti neri della gelosia, commedie e cannibalismi dell’eros, apparizioni dell’androgino. Con andamento sinuoso, fra mezze luci e improvvisi barbagli, Colette ci avvicina a tante storie intrecciate, che poi si dissolvono come echi di conversazioni remote, dove le verità affiorano senza volerlo. Qui tutti i personaggi sono abitatori di un solo reame, e Colette vi si muove da sovrana, da erudita, da eroina e da vittima: il reame oscuro e sfuggente del piacere – anzi di «quei piaceri che chiamiamo, alla leggera, fisici», come suona l’epigrafe che si leggeva sulla copertina della prima edizione. Con queste pagine, Colette ha voluto «versare il suo contributo al tesoro della conoscenza dei sensi», un gesto che qui compie con atteggiamento di devoto e un po’ timoroso rispetto. «Quei piaceri», infatti, sono esseri pericolosi, ingannatori, sopraffacenti, vendicativi. Colette lo sapeva come pochi altri, lei che era riuscita con tale sicurezza a confutare la troppo nota sentenza secondo cui ‘o si vive o si scrive’ – e di fatto aveva sempre scritto molto e vissuto moltissimo, sottoponendo la scrittura al filtro severo della fisiologia. Per lei, i «sensi» sono innanzitutto un goffo eufemismo per designare «l’Inesorabile», un «fascio di forze» che si annida dentro una «scogliera sorda e incomprensibile, il corpo umano». E questo libro è tutto un vagabondaggio intorno a quella «scogliera», fra le zone più calpestate e più ignorate dell’eros, un percorso tortuoso, scandito da una prosa che oscilla con magistrale precisione fra le torture e le delizie.
Quando Il puro e l’impuro apparve nel 1932, col titolo Quei piaceri..., poi abbandonato, la reazione fu soprattutto di scandalo e di indignazione. Ma Colette scriveva: «Un giorno forse si riconoscerà che era il mio libro migliore». Il tempo le ha dato ragione: oggi troviamo in queste pagine, nella sua perfetta maturità, quella Colette dall’artiglio affilato di cui parlava Cocteau: «Non ripuliremo mai abbastanza Madame Colette di quella falsa graziosità in cui la leggenda continua ad avvolgerla... Non prendetela per una cara vecchia signora. La sua zampa di velluto poteva mostrare fulmineamente i suoi artigli».