1975 / pp. 236 / € 0,00
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Giobbe fu davvero paziente, povero e giusto come vogliono i proverbi? Già se apriamo, nella Bibbia, il Libro di Giobbe, così carico di ambiguità e di misteri, la figura del suo protagonista appare subito sconcertante. Ma se poi, come ha fatto Giacoma Limentani per anni, ci mettiamo sulle sue tracce attraverso i midrashim, entrando così in quel labirinto stupefacente di leggende che da sempre hanno accompagnato i testi sacri della tradizione ebraica, ampliandone e scavandone il senso, circondandolo di amorose e penetranti variazioni – allora giungeremo alla conclusione più imprevista: no, secondo numerosi midrashim Giobbe non fu il giusto che subisce una imperscrutabile punizione, ma uno dei peccatori più insidiosi, uno di quelli che più difficilmente potranno essere perdonati: fu l’uomo ignaro delle sue colpe perché convinto di essere nel giusto. Una massima rabbinica dice infatti che le colpe involontarie sono più gravi di quelle volontarie, perché irrimediabili, non essendo riconosciute. Così si spiegano le parole del più grande testo della cabbala, lo Zohar, secondo cui Abramo ebbe un «manto di splendore ampio e perfetto», mentre «di se stesso Giobbe disse: “Nudo sono uscito dal grembo di mia madre e nudo vi ritornerò”, e infatti non vi fu alcun manto con cui vestirlo».
Prima però di arrivare a queste conclusioni, che ribaltano ogni immagine consueta di Giobbe, bisogna percorrere la selva dei midrashim, assaporare una per una e nel loro intreccio le storie che si sono intessute intorno alla scarna vicenda biblica. Scopriremo così innanzitutto che Giobbe non era un povero ma un potente, che la sua fama di saggio lo fece addirittura chiamare alla corte del Faraone (e proprio lì diede una prova assai dubbia del suo senso della giustizia), infine che Giobbe appare nelle età e nei luoghi più vari, tanto da far pensare che fosse non un uomo solo, ma un essere indefinitamente sdoppiato nel corso della storia e condannato a ripercorrere di continuo una certa sequenza di fatti che segnano la sua condanna.
Ma questi sono soltanto accenni sommari. Il midrash non può essere spiegato che da un altro midrash. Giacoma Limentani, che già con gli Uomini del libro ci aveva dato una felice raccolta di midrashim rivissuti e reinventati, costruisce questa volta il ‘romanzo di Giobbe’ secondo il midrash – come un aggrovigliato, ingannevole gioco di corrispondenze, che si protrae nei secoli e non può conoscere una fine. Vi appariranno Abramo e Mosè, Jethro il sacerdote e il Faraone d’Egitto, Dina e i suoi fratelli, l’angelo della morte Samuele e Satan, tre misteriosi cavalieri e una folla di personaggi biblici: al centro sta sempre Giobbe, «il grande seduto» – e dietro di lui, in una fuga di specchi, si spalanca una prospettiva di vertigine: «una infinità di Giobbe identici fra loro nella voce e nell’atteggiamento invocavano la morte rannicchiati ai piedi di alberi diversi e, dopo aver imputato al cielo le loro disgrazie, si alzavano per ripetere gli atti che le avevano rese possibili».