2011 / pp. 469 / € 45,00 € 42,75
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Sergio Solmi è apprezzato, da anni, per le sue rare poesie, che non si dimenticano, e per gli illuminanti saggi letterari. Ma esiste un’altra dimensione della sua opera, la meno nota e forse la più rivelatrice, quella che permette di saldare le molte immagini dello scrittore in una: le prose, di cui Solmi ha qui raccolto una parte, quasi a comporre una complessa linea di vita, che va dagli anni venti a oggi. Percorrendo queste tracce continuamente divergenti, questi calcolati lampeggiamenti di immagini e idee, apparirà chiara la sorprendente singolarità di questo scrittore. Già nelle prime prose, che comparvero nel clima della ‘prosa d’arte’ e a esso sembravano adattarsi perfettamente, riconosciamo oggi degli elementi che non solo alla prosa d’arte erano estranei, ma disgraziatamente sono tuttora rimasti stranieri, ospiti di ben pochi scrittori, nella letteratura italiana: da una parte il tono di un pensiero educato su Valéry e Nietzsche, che s’inoltra nel reale partendo ogni volta da zero; dall’altra, la grande vena del fantastico, cui Solmi si abbandonerà sempre più con gli anni. Assiduo frequentatore delle «voragini discrete che s’aprono a ogni passo nel nostro incerto cammino», viaggiatore clandestino dell’immaginario in tutti gli interstizi del quotidiano, Solmi è divenuto una sorta di transfuga da una letteratura troppo domestica – e la sua defezione è stata coerente e sicura, anche se non si è dichiarata con squilli di tromba. Al contrario, egli ha pazientemente, occultamente scalzato un impianto neoclassico, fatalmente rigido e difensivo, contaminandolo con l’informe e col multiforme – tenendo sempre fermo, però, a una prosa limpidissima e composta. Movimento prefigurato con chiaroveggenza in una delle sue prose più vecchie, Bisce acquaiole, oscillazione fra le «statue» – le perfette «creature cieche», che nella loro purezza nutrono la morte – e il limo primordiale che le circonda, luogo delle terribilità naturali e delle «germinazioni buie e felici». Più avanti, nelle Meditazioni sullo Scorpione, certo una delle più belle prose italiane di questo secolo, maturata durante la guerra, Solmi ha in certo modo compendiato la sua evoluzione fissando i tratti del «nostro ancestrale totem»: nelle memorie infantili, nella fisiognomica astrologica, nella presenza immediata della distruzione, nelle allusioni della morfologia, in tutto questo ha attinto elementi per duplicare la mitica bestia in una possente immagine dell’ambivalenza: non da fuggire, ma da vivere continuamente, coltivando la precisione e circondati dall’oscurità. Procedendo oltre nelle divagazioni di questi ultimi anni, si constaterà poi come i confini del mondo di Solmi si siano allargati incessantemente: dalle carte geografiche dell’infanzia, primo e prediletto luogo del fantastico, l’occhio ha finito per spostarsi verso la sconcertante prospettiva di «infiniti mondi, infiniti sogni, infiniti destini paralleli», con cui il libro si chiude – come se il bambino, dopo molti anni, fosse giunto a constatare di vivere già nel luogo remoto indicato sulle carte dall’ominoso hic sunt leones.