2008 / pp. 200 / € 18,00 € 17,10
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Abramo, che intrattiene con l’Essere da lui scoperto (il Signore) curiosi e complessi rapporti, apprende da Lui che sua moglie Sara gli partorirà un figlio, pegno del patto divino. La notizia non sarebbe così grave se Sara non avesse novant’anni e Abramo cento, e se i loro rapporti coniugali non fossero ormai limitati all’estatica adorazione che il marito tributa alla moglie, la «principessa» nata nel culto degli idoli, «fiore meraviglioso che invece di appassire sembra abbandonarsi a un lento processo di autoimbalsamazione». La relazione fra Sara e Abramo è un groviglio psicologico ed erotico che Brelich dipana con virtuosistica destrezza: un legame di masochismo, inganno e rovente passione, nel quale si può leggere in trasparenza anche quello fra la nuova religione ebraica e il politeismo semitico da cui essa si stacca. I dubbi, i tormenti, le misteriose resistenze che hanno origine da questa situazione non impediscono però, alla fine, il compiersi del miracolo: il sacro amplesso fecondo e la nascita di Isacco («Riso»). Sullo sfondo della vicenda riconosciamo la storia dei primordi del popolo ebraico, dall’abbandono di Ur dei Caldei all’arrivo nel paese di Canaan, dal soggiorno in Egitto alla distruzione di Sodoma e di Gomorra.
La forma, sorprendente, di questo libro potrebbe essere definita «esegesi romanzesca». La storia di Abramo e Sara viene qui sottoposta a una interpretazione che nulla vuole avere di scientifico ma che, con un inconfondibile tono di ironia e di saggezza, mira soprattutto a ritrovare un disegno di rapporti archetipici – e a riviverli in tutta la loro ambiguità. Tranquillo e temerario, Brelich riprende questo tema capitale, colma con esuberanza le numerosissime lacune della vicenda che l’Antico Testamento ci ha tramandato in pochi tratti, ‘ripulisce’ il Signore dalle ingenue giustificazioni che gli apologeti hanno escogitato per le Sue bibliche malefatte e, quasi avesse assistito a ogni momento di essa, illustra tutti i vari passaggi della vita di Abramo, uomo pieno di folli passioni e menzogne, che si abbandona con fervore alla concezione del Dio Unico.
Ma non è solo l’audacia dell’assunto a colpire immediatamente in questo libro: è anche lo stranissimo amalgama dei toni. L’estrema agilità di movimento nei più riposti meandri psicologici non intacca mai l’integrità arcaica dell’insieme, che ci fa apparire il paesaggio biblico in tutto il suo spessore di fatto e di favola, come attraverso l’occhio di un grande pittore naïf. E la disinvolta sfrontatezza della narrazione e delle interpretazioni si accorda paradossalmente col mistero e la maestà della vicenda. Sicché giustamente Karl Kerényi – consigliere segreto di una analoga, apparentemente, e celebre impresa letteraria: Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann – nel presentare una precedente «esegesi romanzesca» di Brelich su Noè, l’aveva giudicata «qualcosa di nuovo e unico». Nel suo delicatissimo equilibrio, tutto il testo è mosso da una costante malizia, che soltanto alla fine sarà sopraffatta e riassorbita nell’immenso, sconvolgente riso del Signore, sigillo del libro.