Jaime de Angulo
Racconti indiani
Biblioteca Adelphi, 49
1973, 6ª ediz., pp. 298, Con disegni dell’autore
isbn: 9788845900839
Jaime de Angulo è ormai una leggenda, in America. In questi anni, in cui si è compiuta una frenetica riscoperta delle grandi culture indiane, unita a un movimento di solidarietà con ogni forma di resistenza a farsi uccidere dalla civiltà bianca, Jaime de Angulo è apparso in certo modo come il primo che abbia voluto e abbia saputo cambiare pelle totalmente, passando, nella sua vita e nel suo modo di pensare, totalmente dalla parte degli Indiani. I Pit River della California, dei quali per lunghi periodi egli condivise la vita, fino alla sua morte, avvenuta nel 1950, lo chiamavano semplicemente «Doc» e non lo consideravano un uomo bianco ma uno di loro, uno strano indiano spagnolo. All’inizio, de Angulo aveva voluto soprattutto studiare il loro complicatissimo linguaggio, attratto dal contrasto fra di esso e la vita «da età della pietra» che gli Indiani conducevano. Scoprì invece anche molte altre cose – e soprattutto fu contagiato dallo spirito indiano, al quale da allora non cessò di assimilarsi, abbandonando sempre più il suo ruolo di studioso (e, come tale, autore di lavori a tutt’oggi ammirati per la loro acutezza e meticolosità), un po’ come l’antropologo del famoso racconto di Borges che, tornato dai suoi viaggi di ricerca, si chiuse in un assoluto silenzio. Jaime de Angulo non tacque, ma cominciò a parlare in modo nuovo, perché aveva conquistato l’arte più misteriosa dei suoi Indiani: quella di raccontare storie. Storie magiche e quotidiane, di animali, di erbe e di uomini, che si svolgono «in quell’alba preistorica in cui uomini e animali non erano così distinguibili gli uni dagli altri come oggi», storie che si presentano come racconti per bambini (e certamente esistono pochi libri per bambini, fra noi, di tale grazia e bellezza), ma dove si ritrovano frammenti di miti antichissimi di queste popolazioni, che rivelano una enorme ricchezza e sottigliezza di pensiero, un po’ come avviene per il loro raffinato linguaggio. I deliziosi protagonisti di questi racconti – la famiglia nomade di Padre Orso, Madre Antilope, Ragazzo Volpe, e la bambina Piumedoro e tanti altri – camminano e camminano fra il popolo delle Erbe, il popolo delle Selci, il popolo delle Gru, si fermano a raccontare e ad ascoltare storie. Guidati dal tocco leggero, dallo humour delicatissimo di de Angulo, scivoliamo quasi inavvertitamente in un mondo di assoluta familiarità con ogni essere della natura, impariamo quali rapporti si debbano tenere con la propria ombra, come usare il potere magico del damaagomi (insieme ‘veleno’ e ‘medicina’, come il pharmakon di Platone), o come identificare il proprio Doppio animale, il tinihowi che protegge la vita dell’uomo che lo ha cercato. In questo nuovo paese delle meraviglie, immediato e selvatico, il senso di ogni avvenimento traspare solo in rapporto a ciò che esso fu ‘in quel giorno’ in cui avvennero i miti – giorno da cui discende sulle cose quel senso del prodigio che de Angulo riconobbe nella vita dei Pit River e che illumina anche il tenero, infantile tessuto di questi suoi Racconti indiani, non a caso tanto ammirati da due maestri della forma perfetta: William Carlos Williams e Marianne Moore.
Racconti indiani è apparso postumo nel 1953.