Il 7 gennaio 1904, James Joyce, allora ventiduenne, scrisse un racconto autobiografico intitolato Ritratto dell’artista. Da quello spunto si sarebbe sviluppato, attraverso una complessa elaborazione durata oltre dieci anni, il primo dei suoi tre grandi libri, che fu pubblicato a New York nel 1916, col titolo Ritratto dell’artista da giovane, e che resta una delle opere fondamentali della letteratura del nostro secolo. Il protagonista, Stephen Dedalus, ovvero «l’artista da giovane», riproduce i tratti di Joyce stesso, e non è difficile stabilire una corrispondenza precisa fra i dati biografici dell’autore ed episodi e personaggi del romanzo. Dedalus, come Joyce, porta il segno di un’appassionata ambivalenza verso la Chiesa, l’Irlanda e la sua famiglia. Come Joyce, egli si appropria di forme e linguaggi, e ama forzarli a usi eterodossi. E alla fine del romanzo Dedalus sceglierà per sé quelle armi odisseiche che furono l’insegna di Joyce durante tutta la sua vita: silenzio – esilio – astuzia.
Ma Dedalus, come indica il suo nome, è anche un personaggio esemplare, una sorta di paradigma dell’artista. E proprio in questa difficile mescolanza tra personaggio reale e ideale sta la sua ricchezza. Così, ad esempio, oltre che un resoconto lucidissimo delle lotte combattute, dentro e fuori di sé, dal giovane protagonista per uscire da quel labirinto i cui meandri si chiamano infanzia, famiglia, collegio, città, religione e patria, il libro è anche un’esposizione illuminante delle idee dell’autore sull’arte e sulla vita. I fitti dialoghi sull’estetica che vi si incontrano rivelano, dietro il significativo mascheramento della terminologia tomistica, alcuni criteri che resteranno poi sempre impliciti e operanti nell’opera di Joyce. Si può leggere Dedalus quasi come un romanzo tradizionale, ma da certe brecce, oscure e affascinanti, si capisce già che non sono lontane le grandi caverne dell’Ulisse e di Finnegan’s Wake.