2024 / pp. 191 / € 12,00 € 11,40
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Biblioteca Adelphi
1978 / pp. 214 / € 14,00 -
Adelphi eBook
2014 / pp. 214 / € 6,99
Per Joseph Roth l’impero absburgico, prima che una realtà politica, fu un personaggio, forse il più grande fra i personaggi da lui creati, certo il più pervasivo. E La Marcia di Radetzky (1932) fu l’unico libro in cui Roth tentò di dare una rappresentazione frontale di tale personaggio. Lasciò che l’epos, invertendo la successione storica, fiorisse dal tronco del romanzo. Oggi si può aggiungere che Roth riuscì perfettamente nel suo intento. Questo libro, dalla prima riga all’ultima, ci prende come un’onda, e finiamo di leggerlo abbandonati a un ultimo moto di risacca. Mai come in queste pagine la totalità imperiale si è dispiegata fedelmente, come un manto che copre allo stesso modo le regioni paludose della frontiera orientale, i viali del Ring dove sfilano i lipizzani, fra elmi neri e dorati, sotto «l’occhio di porcellana azzurra dell’Imperatore», e le città di guarnigione, con i loro circoli, caserme, bordelli. Bastano tre generazioni della famiglia Trotta, uscita dall’oscurità con il gesto di un sottotenente che salva l’Imperatore sul campo di Solferino, per farci percorrere l’immenso corpo fantomatico che l’aquila bicipite custodiva. Dopo quel primo gesto, i Trotta non potranno compiere altre imprese gloriose. Basta che vivano, e con il loro passo, senza che lo sappiano, avanza il tempo, che diventa destino. È un passo militare, elastico, ma in fondo «i Trotta erano uomini timidi». E infinita è la delicatezza con cui, attraverso di loro, viene registrato il protratto congedo di un altro personaggio, onnipresente e invisibile, che era una civiltà.