2011 / pp. 155 / € 18,00 € 17,10
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Ma perché mai, dopo tanti anni passati in continente, Carmine Pullana era tornato al paese? Per sapere, finalmente, la verità. Per cercare le tessere che mancavano al mosaico della sua vita, e morire in pace. Per scoprire, innanzitutto, che cosa era accaduto la notte in cui negli stagni davanti a Baraule era stato trovato il corpo straziato di Sidora Molas e nella rete di Martine Ragas, noto Polifemo, era rimasta impigliata quella «cosa informe che sembrava un coniglio scuoiato, una spugna rossa inzuppata di sangue», e invece era un neonato, «un innocente che non aveva neanche la forza di piangere». Martine l’aveva messo ad asciugare pancia al sole dentro il berretto, e la creatura aveva ripreso a respirare. «Questo è uno che non vuole morire» aveva pensato il pescatore. «Qualcuno lo ha rispedito indietro dall’inferno». Lo aveva portato a sua sorella Battistina, che lo aveva battezzato con l’acqua del pozzo. Carmine, Carmineddu, un angelo venuto dal mare: questo era per loro. Poi però Martine l’aveva venduto a un proprietario barbaricino che aveva la moglie «vurvi arrunciunia», e Battistina era morta dal dolore. Quelli lo avevano fatto crescere da signore, lo avevano fatto studiare, e Carmine era andato all’università ed era diventato chirurgo – anzi, era diventato «il salvatore dei bambini col cuore guasto». Ma sempre, per tutti quegli anni, aveva rivolto a Dio la stessa tormentosa e dolente richiesta: di fargli scoprire un giorno il nome di suo padre e di sua madre. E adesso che dentro il petto aveva quel «cane che gli addentava i polmoni», e quando tossiva sputava sangue – adesso era arrivato il momento di sapere.