Jorge Luis Borges
L’oro delle tigri
Biblioteca Adelphi, 465
2004, pp. 156
isbn: 9788845919329
«Da un uomo che ha compiuto i settant’anni indicati da Davide non possiamo attenderci molto, fuorché il consapevole impiego di alcune abilità, di qualche leggera variazione e di parecchie ripetizioni» si legge nel Prologo di questo libro. In realtà, L’oro delle tigri, apparso nel 1972, si iscrive in uno dei periodi più intensi dell’attività poetica di Borges e ne documenta un volto nuovo, una diversa tonalità – più lirica, più personale, più intima. La meditazione sui temi del tempo, dell’identità, del sogno è percorsa da un sentimento elegiaco di rimpianto e di nostalgia meno dissimulato e controllato («Sull’ultima rampa della scala sento che mi sta accanto. / È nei miei passi, nella mia voce. / Lo odio minuziosamente. / Noto con piacere che quasi non vede»), e le domande sul mistero dell’esistenza, della morte, della divinità esprimono ora un senso di profonda desolazione più che un’urgenza speculativa. Il Borges di questi anni, insomma, è meno restio ad abbandonare la sua «estetica del pudore», e più incline a parlare di sé, delle sue tristezze, della sua solitudine, delle assenze, degli amori mancati. E lo fa con una quiete raccolta cui corrispondono la struttura pacata del periodare, l’andamento pausato delle lunghe enumerazioni, la classicità delle forme metriche (endecasillabi sciolti, quartine rimate, sonetti), la particolare musicalità della parola: «Indegno delle stelle e delle ali / che solcano l’azzurro ora segreto, / di quei segni che sono l’alfabeto / ... / sono, ma non delle Mille e Una Notte / ... / né di Walt Whitman, che altro Adamo nomina / ogni creatura che è sotto la luna, / né dei candidi doni dell’oblio / né dell’amore che attendo e non chiedo».