Chi era veramente Ferdinando Tartaglia, protagonista dell'esperienza religiosa forse più radicale ed estrema del Novecento? Che cosa ha scritto? E come mai un pensatore di quel livello è rimasto e rimane tuttora misconosciuto se non decisamente ignoto? Una risposta carica di rivelazioni e suggestioni ci è offerta dal mirabile ritratto che a Tartaglia ha dedicato, nel 1968, Giulio Cattaneo. Un ritratto, come ha scritto Attilio Bertolucci, cui fa da sfondo una Firenze «corsa da tramontane e da eresie parimenti vivificanti ma ahimè non durature», illuminato «a sprazzi mobili, veloci e imprendibili dalla predicazione volante dell'indimenticabile protagonista» e che, con la sua naturalezza e asciuttezza, sembra riallacciarsi idealmente «ai memorialisti e ai cronisti spassionati di tanti secoli addietro». Scorrono davanti ai nostri occhi le frequentazioni di Tartaglia e il vasto ventaglio delle sue letture, dai provenzali a Donne, da Proust a Charles Lamb, dall'Aminta alla Tempesta, e poi i venerati Agostino, Spinoza e Bergson; il contesto socio-politico, dalle Case del Popolo ai Centri di Orientamento Sociale ai circoli socialisti e liberali, cioè i luoghi dove l'uomo della novità inscenava aspramente il versante engagé della sua visione del mondo; il paesaggio tra Parma e la Toscana con i «crepuscoli lunghissimi» che scendono sui poggi e i «lumi della sera» che punteggiano i borghi lontani.