Michail Privin
Ginseng
Biblioteca Adelphi, 89
1979, 3ª ediz., pp. 137
isbn: 9788845903977
Il ginseng, «radice di vita», è una pianta a cui dall’antichità si attribuiscono grandi poteri magici. Verso di essa, senza saperlo, muove l’avventura di un giovane chimico russo che, durante la guerra russo-giapponese del 1904, abbandona il fronte, valica la frontiera con la Cina e, d’improvviso, si trova in quello che subito gli appare un paradiso, tra «fiori rossi grandi come falò, farfalle come uccelli», valli dalle erbe altissime. A iniziarlo alla ricerca del ginseng è un vecchio cinese coperto di rughe, infantile e sereno, che abita in una capanna sulla Montagna di Nebbia. Nella sontuosa e intatta tajgà che tutt’intorno si stende, il disertore, ora diventato solitario cacciatore, si accorge presto di aver trovato la sua terra d’origine, che è «quella in cui ti sei imbattuto nella felicità». Vivere in quella terra produce, in chi vi si riconosce, trasformazioni profonde, incontrollabili. Il giovane abbassa la canna del suo fucile, si innamora perdutamente di Chua-lu, la stupenda «cerva-fiore» che un giorno gli si para davanti, si lascia abbandonare da una donna in cui la «cerva-fiore» si è trasformata. E intanto, nella foresta, il suo ginseng «cresce-cresce», come dice il vecchio cinese, cha sa curare uomini e bestie, ha il dono di «rendere vitale tutto ciò che c’è al mondo» e si rivela essere «il più tenero, il più attento e – oso dire – il più civile dei padri». Un legame sottile come i filamenti del ginseng unisce in questo libro la ricerca della «radice di vita», l’amore incantato fra il narratore-protagonista e la «cerva-fiore», i maestosi duelli fra i cervi che la corteggiano, l’astuta e insieme amorevole cattura dei cervi, il parlottio delle acque sotterranee e il progressivo «liquefarsi» dei confini fra le rocce, le piante, gli animali e gli esseri umani. «Trovare il proprio Ginseng» e insieme dominare la Montagna di Nebbia, per un’abitudine che il giovane chimico si porta dietro dalla nostra civiltà: queste due spinte, oscure e opposte, si intrecciano qui in una favola che solo uno scrittore dalla mano perfettamente innocente avrebbe potuto raccontarci.
Pensiamo a Hesse e a Hamsun leggendo queste pagine, ma soprattutto pensiamo al protagonista del libro. Prišvin doveva somigliargli: anche lui aveva abbandonato molto presto il mondo civilizzato per cercare nella tajgà mancese «quella esistenza dove nasce la poesia, dove non c’è differenza sostanziale tra l’uomo e la belva». I suoi primi libri si intitolavano La caccia alla felicità e Nel paese degli uccelli non spaventati (1906), che potrebbero essere i luminosi sottotitoli di Ginseng. Nato nel 1873, la sua giovinezza era stata «quella comune di un intellettuale: rivoluzionaria» (ma il primo libro era di agronomia: La patata nei campi e negli orti). Quando venne la Rivoluzione del 1917, si tenne in disparte – e rimase al margine della vita letteraria russa sino alla morte, avvenuta nel 1954. Ginseng fu pubblicato nel 1933. Di questo libro dalla perfetta misura Prišvin scriveva: «La mia anima si rifletteva nella natura a me ignota o, all’inverso, la natura ignota si rifletteva nella mia anima. Ho descritto questo reciproco riflettersi». In ognuna di queste pagine sentiamo il «fruscio della vita», simile al fruscio delle farfalle notturne che accorrevano a frotte intorno al fuoco del vecchio cinese, sulla Montagna di Nebbia.