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Blaise Cendrars

Rapsodie gitane

Traduzione di Romeo Lucchese

Biblioteca Adelphi, 87
1979, 6ª ediz., pp. 228
isbn: 9788845903861

€ 24,00  (-5%)  € 22,80
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IN COPERTINA
Max Ernst, Le Jardin de la France (1962).
MAX ERNST by SIAE, ROMA 2022
SINOSSI

Blaise Cendrars è stato il grande avventuriero della letteratura moderna, l’eterno nomade, vorace, curioso, affabulatorio, oscillante fra la Legione Straniera e il music hall, fra le roulettes degli zingari e la pampa, fra la moviola e la Transiberiana. Da quando scappò di casa, nel 1903, a sedici anni, la sua vita non ha fatto che cambiare rapinosamente scenari, lo ha immerso in mondi sbarrati e cifrati per gli estranei, dove però si trovava ogni volta ad abitare con naturalezza. Viaggiava senza tregua, ma non è stato mai un turista. Quasi senza farci caso, fu tra gli inventori della poesia moderna. Ma si sottrasse subito a quella trappola che era il mestiere dell’avanguardia. Con strafottenza e fierezza, proclamava: «Io non intingo la penna in un calamaio, ma nella vita». Col suo gusto infallibile per il concreto, per la peculiarità dei sapori, trovava ovunque l’enormità, l’immagine dirompente, traboccante: nella periferia di Parigi come nei suoi vagabondaggi sudamericani (mentre i suoi colleghi andavano a Mosca: «Gli altri credevano all’avvento del socialismo perché sono di formazione universitaria, io no. Io prevedevo soltanto l’antico massacro… la guerra sofisticata dalla scienza»). Gli mancava senz’altro la «formazione universitaria», ma forse appunto per questo Cendrars fu anche una sorta di erudito selvaggio, uno dei pochi che sapevano riconoscere nelle biblioteche un’ultima giungla.
Nelle Rapsodie gitane (1945) Cendrars traversa a zigzag la sua vita – e mai come in queste pagine lo sentiamo presente, in tutta la densità della sua persona. Qui Cendrars si abbandona senza ritegno all’arte della narrazione orale, in cui sapeva maestri i suoi amici gitani, quando si raccontano le storie della tribù, nelle veglie notturne accanto al fuoco.
Vivere non basta, bisogna raccontare. Così, in mezzo a fascinose digressioni, maestose anse, fulminee deviazioni, lo seguiamo mentre evoca figure incancellabili: l’eccentrico poligrafo Gustave Le Rouge e i suoi armadi a specchio, la messicana Paquita, «strega depravata», dal colossale patrimonio, con la sua sbalorditiva collezione di bambole di cera, il gitano Sawo e le sue atroci storie di vendette, rivalse, gelosie tribali. E qui la letteratura, che Cendrars aveva finto di voler abbandonare, si prende la sua tarda vittoria: perché ogni storia lievita e si dilata di là da ogni possibile documentabilità biografica. C’è qualcosa di continuamente eccessivo e improbabile e, insieme, di palpabilmente vero in ciascuna di queste «rapsodie». Forse anche perché ci arrivano traversando una vita che era tutta una affabulazione. E, ci ricorda un personaggio di Cendrars, «quando uno racconta, ricama su qualcosa di già ricamato. Così la verità viene chiusa in una rete da cui non scapperà più».

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