John Aubrey
Vite brevi di uomini eminenti
A cura di Oliver Lawson Dick
Biblioteca Adelphi, 73
1977, 2ª ediz., pp. 287
isbn: 9788845903304
La vita di ogni persona manifesta una singolarità irriducibile, una cifra, un sapore, un profilo unici, che la storia poi si incarica o di cancellare o di attenuare e riassorbire. John Aubrey, dilettante e ‘virtuoso’ (nel senso seicentesco di ricercatore di ogni «curiosità della Natura e dell’Arte»), amico di Locke e di Newton, di Thomas Browne e di Hobbes, di Robert Boyle e di John Evelyn, ebbe in grado supremo la qualità appunto di saper nominare il particolare, l’aneddoto individuante e un’innata sapienza nell’evocare il tono, il gesto, la fisiologia della vita. E questo non come risultato di ponderati artifici, ma quasi come risonanza di un incessante chiacchiericcio, capricciosamente trascritto. Come in Saint-Simon, come in Proust, l’occhio e l’orecchio di Aubrey erano sempre in agguato, captavano, filtravano e utilizzavano tutto. Così, in modo irriflessivo, tumultuoso e vorace, Aubrey passò la vita ad annotare, instancabile, particolari e tratti notevoli di ciò che incontrava o gli veniva raccontato o scopriva. Una parte di questi appunti, stesi in una sorta di scrittura stenografica, che dà al suo stile una stupefacente modernità, è dedicata alle vite di uomini, per qualche ragione illustri, del passato (e vi troveremo Shakespeare ed Erasmo, accanto a nobili inglesi caduti poi nell’oblio) o suoi contemporanei (e vi troveremo quasi tutti i protagonisti intellettuali di quel secolo di genio prorompente che fu il Seicento inglese, accanto a personaggi frivoli o irrecuperabilmente dimenticati) – ed essa forma quella raccolta di Vite brevi, qui presentate per la prima volta in italiano nella felicissima versione di J. Rodolfo Wilcock, che hanno fatto di Aubrey quasi l’eroe fondatore di ogni possibile arte della biografia. La rapidità, la violenta e spesso involontaria comicità, l’impudenza e il taglio colloquiale del racconto, la capacità di sconcertare con la pura accumulazione di elementi imprevisti (Shakespeare come garzone di macellaio che «ogni volta che uccideva un vitello lo faceva in stile grandioso e pronunciava un discorso», Hobbes che si preoccupa di impedire alle mosche di posarsi sulla sua calvizie – e centinaia di altri) fanno sì che queste pagine, presentate da Aubrey stesso come «relitti di un naufragio» – il perpetuo naufragio del Tempo –, esercitino un fascino invincibile sul lettore di oggi, che legge queste vite come altrettanti romanzi in miniatura e al tempo stesso ha l’impressione di ascoltare una conversazione incantevole e sfrontata o di frugare fra crudi documenti di archivio. Qui il biografo diventa quasi un pettegolo negromante ovvero, come scriveva Marcel Schwob a proposito di Aubrey, «una divinità inferiore», che «sa scegliere, fra i possibili umani, quello che è unico». E Aubrey doveva ben presagirlo, se scrisse che «il riscattare queste cose dimenticate dall’oblio in certo modo somiglia all’arte di un mago, il quale fa camminare e apparire coloro che per centinaia di anni hanno giaciuto nella loro tomba, sì da ricondurre per così dire dinanzi agli occhi i luoghi, i costumi e le mode dei tempi passati».