Elegante ventiquattr’ore su ventiquattro e inaccessibile, laconico e gelidamente cortese, il protagonista di questo romanzo potrebbe sembrare una maschera – o un enigma. Eppure, e succede di rado, sin dalla prima inquadratura sappiamo con certezza che ci lasceremo conquistare. Forse perché il suo raffinato distacco ci sfida. Forse perché la casa minuscola e complicata in cui vive non lontano da Parigi, affollata com’è di miniature d’ogni sorta, statuette e ninnoli, carillon e giocattoli a molla, ci incanta. O forse perché è Ravel, uno dei musicisti più celebri al mondo. Ma le ragioni della malìa che quest’uomo asciutto e chic esercita su di noi sono probabilmente altre. Come Faulkner, ha il formato di un fantino, e quando, durante la Grande Guerra, lo vediamo percorrere impavidamente gli Champs-Élysées a bordo di un enorme autocarro militare – un piccoletto affogato in un pastrano blu e avvinghiato a un volante troppo grosso –, l’ilarità si mescola all’ammirazione. E quando dice in faccia a Gershwin che non ci pensa proprio a dargli lezioni di composizione perché non vuole fargli perdere la sua «spontaneità melodica» – e a che scopo, poi, per diventare la brutta copia di Ravel? –, sentiamo con inspiegabile commozione che dietro la tracotanza delle sue battute, dietro il suo star dritto come un fuso negli abiti attillati, c’è il tormento di un’immensa stanchezza, di un’incombente sensazione di noia e solitudine. E se alla fine, ritrovandolo ormai sepolto vivo in un corpo che non risponde più all’intelligenza, ci sembrerà più indimenticabile e vero del vero Ravel, il merito è tutto di Jean Echenoz, che con questo romanzo partecipe e nonchalant, retto da uno stile impavido, che pare mutuato dallo stesso protagonista, ci ha regalato una delle più sorprendenti letture degli ultimi anni.
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