«La grande novità di questo romanzo, il cui titolo rappresentava già di per sé una sfida, era il fatto che nelle sue pagine si diceva: ho paura». Così scriveva l'autore presentando, a vent'anni di distanza dalla sua uscita, una nuova edizione dell'opera «infamante» che nel 1939, alla vigilia di un'altra guerra, era stata pudicamente ritirata dalle librerie. Eppure, se La paura è un libro unico, diverso da tutti quelli pubblicati a caldo per denunciare la barbarie della prima guerra mondiale, non è solo a causa dell’insolenza con cui dà voce a ciò che a detta di molti andrebbe taciuto: lo è anche, e soprattutto, per la forza visionaria della scrittura. Fin dalle prime pagine, infatti, si resta sbalorditi di fronte all’efficacia di Chevallier, il quale (accompagnando il suo alter ego dal tragicomico «carnevale» dell'arruolamento all'impatto con i campi di battaglia, dal lungo ricovero in ospedale al ritorno al fronte, fino al lugubre silenzio che sembra avvolgere la terra intera dopo il «Cessate il fuoco!») sa coniugare con mano saldissima la verità impietosa della testimonianza con la forza affabulatrice del romanzo. E riesce, condensandoli in una lingua di purezza estrema a farci percepire, quasi fisicamente, l'orrore, lo sgomento e la disperazione; a farci vedere l’«esplosione di luce irreale» dei razzi, i cadaveri dilaniati, il «labirinto silenzioso e desolato delle trincee»; ad alternare l'asprezza delle riflessioni del narratore alla vivacità autenticamente plebea delle conversazioni; a mettere in scena la vanità grottesca degli ufficiali, le vigliaccherie di alcuni e l'eroismo di molti; a farci condividere la cocciuta voglia di vivere e l'ossessiva paura di morire di tutti – e a svelare, in episodi narrati con caustica ironia, i meccanismi perversi che regolano, nel corso di un conflitto, i rapporti tra chi comanda e chi può soltanto obbedire.