Quando qualcuno scriverà la storia intellettuale degli ultimi trent’anni, Taubes non potrà che spiccare come una figura inevitabile – tanto più influente quanto più elusiva e celata dietro le quinte. Discendente di una famiglia di rabbini, Taubes esordisce giovanissimo con un importante libro sulle concezioni apocalittiche ed escatologiche della storia, da Giovanni a Gioacchino da Fiore fino a Marx e Kierkegaard, cui seguono lunghi anni di silenzio durante i quali egli si impone come un autorevole maestro orale: è intorno al suo istituto a Berlino che, sul finire degli anni Sessanta, si raccolgono i leader della rivolta studentesca. E a lui fanno capo numerose iniziative di grande rilievo, come la collana «Theorie» dell’editore Suhrkamp. Il pensiero di Taubes, dunque, filtra a lungo per vie indirette, e comunque in modo assai efficace, finché nel febbraio 1987, poche settimane prima della morte, egli accetta di tenere a Heidelberg un seminario sulla Lettera ai Romani di san Paolo, il testo massimo su cui si dividono le acque fra la Legge e la Grazia, fra ebraismo e cristianesimo, fra tradizione ellenica e tradizione giudaica. Seminario che si trasforma in una febbrile summa del suo pensiero, la cristallizzazione di tutti i suoi temi essenziali, nonché l’occasione per un ultimo emozionante confronto con l’antagonista che più lo aveva provocato a pensare: Carl Schmitt.