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Czesław Miłosz

La mia Europa

Traduzione di F. Bovoli

Biblioteca Adelphi, 156
1985, 7ª ediz., pp. 355
isbn: 9788845906237

€ 26,00  (-5%)  € 24,70
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IN COPERTINA
Philipp Otto Runge (1777-1810), Blick auf Wolgast.
SINOSSI

L’idea di questo libro è nata nel solaio di una casa sulle rive del lago di Ginevra. Camminando su tavole di legno scricchiolanti o su pavimenti di mattonelle rosse un po’ consunte, davanti a vecchi cassettoni dipinti, Miłosz sentì che qualcosa gli stava parlando dal suo passato. Ma subito si accorse di essere muto. «Il profumo di quel solaio mi era familiare, lo stesso dei nascondigli della mia infanzia, ma il paese dal quale provenivo era distante e, simile a un diavoletto che scatta dalla scatola, io mi muovevo secondo le leggi di un meccanismo impenetrabile per i miei amici ginevrini». Che cosa di preciso poteva significare la parola Lituania per i suoi ospiti? E che cosa sapevano in quella Europa idilliaca di quell’altra Europa, dove Miłosz aveva trascorso decenni di una vita segnata da una successione di orrori dinanzi ai quali «la parola non può non essere perdente»?
Così Miłosz pensò a un libro che lo obbligasse a svelare almeno una parte di quell’«amaro sapere incomunicabile agli occidentali» che si era accumulato in lui; un libro che non fosse soltanto di memorie personali, ma geografiche: il fantasma possente di certe terre che avevano fatto parte del Granducato di Lituania, quando esso era una potenza ben maggiore di quella russa, avrebbe continuato a mostrarsi attraverso le vicende della sua «vita di poeta», e ogni scena si sarebbe prolungata in un cespuglio di digressioni storiche. Con umiltà, usando i propri sentimenti quasi come pretesto per evocare quel fantasma di popoli, boschi e vicoli, Miłosz ha scritto un libro prezioso, il primo forse che dovrebbe prendere in mano chiunque voglia sapere qualcosa di quella immensa Europa «sequestrata», dove è d’uso ormai cancellare la storia, il tempo, i nomi, ma dove la complessità e gli intrecci delle civiltà erano tali che «pressoché ogni uomo che si incontrava era diverso dall’altro, non per una sua peculiare specificità, bensì quale rappresentante di un gruppo, di una classe o di un popolo».
Chi si è trovato a vivere, come Miłosz, in quelle terre durante la prima metà del secolo ha dovuto forzatamente attraversare tutte le trappole e le tensioni dell’epoca, e ogni volta nella loro forma estrema. Un dolente, incompreso sorriso appare in un tale uomo quando l’Occidente vuole sorprenderlo o sconvolgerlo. Perché ogni volta si tratterà, al più, di una ripetizione attenuata di qualcosa che laggiù è già avvenuto.
È parte della grandezza di Miłosz aver conservato intatta la forza del ricordare. Guidati da quella forza, siamo qui spinti a immergerci, con stupore, in una selva di dettagli che la storia ha condannato. Così le strade di Parigi come l’intreccio delle generazioni e dei caratteri finiscono per fissarsi in immagine: «re addormentati in un groviglio di gigli di pietra, simili a disseccati insetti invernali».

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