
David Garnett
Il ritorno del marinaio
Piccola Biblioteca Adelphi, 160
1984, pp. 174
isbn: 9788845905681
Con una principessa del Dahomey vestita da uomo, un bambino nascosto in una cesta di erbe intrecciate e un pappagallo in una gabbia di vimini, il marinaio Targett sbarca nel porto di Southampton, verso la metà dell’Ottocento. In Africa aveva cavalcato coccodrilli, ora vuole aprire un’osteria e vivere anni abitudinari e tranquilli. L’osteria si chiamerà «Il ritorno del marinaio». Ma nella quieta campagna del Dorset si cela un’insidia più temibile di quegli animali da preda che Tulip, la principessa nera, crede di vedere appostati dietro ogni siepe. E a poco a poco si chiuderà la trappola su questa ultima «buona selvaggia», la cui vita è passata oscillando tra la feroce morte sacrificale nel suo regno africano e il lento avvelenamento prodotto dall’odio e dalla persecuzione entro la verde cornice della campagna inglese.
Figlio di Edward Garnett, e perciò nato nel cuore della vita letteraria inglese, figura dell’ambiente di Bloomsbury e dei neopagani, David Garnett raggiunse l’apice della sua arte negli Anni Venti, quando apparvero a breve distanza i suoi libri più perfetti: La signora trasformata in volpe (1922), Un uomo allo zoo (1924) e questo Ritorno del marinaio, che è del 1925. Garnett definiva la sua arte «realismo poetico». Ma la descrizione più precisa di essa la diede forse T.E. Lawrence in una lettera all’amico: «Devi avere ben chiaro che ti trovi al di fuori del movimento realista. La tua opera è simbolista in ogni sua fibra. Tutte le cose che ti riescono devono la loro riuscita a un qualche significato che gli atti o le parole portano con sé: un significato che non si esplicita mai, né lo potrebbe, ma non è neppure implicito né ha a che fare con qualcosa che i tuoi personaggi possono dire o fare. È semplicemente qualcosa che accade, di tanto in tanto, e allora uno si ferma e dice: “Questo è terribilmente importante: questa è la cosa che conta”».