Carlo Emilio Gadda
Lettere a una gentile signora
La collana dei casi, 12
1983, 2ª ediz., pp. 227, 3 tavole b/n fuori testo
isbn: 9788845905551
«Cara e Gentile Signora»: così comincia la prima lettera di questo epistolario, scritta il 21 settembre 1935. «Cara, gentile Signora Lucia»: questo è l’inizio dell’ultima, scritta ventinove anni dopo. Durante tale periodo, che fu ricco di creazioni e di angosce nella vita di Gadda, la consuetudine epistolare accompagnò i rapporti fra lo scrittore e Lucia Rodocanachi, la «Gentile Signora», mantenendoli a una distanza che – come sempre in Gadda – per essere giusta doveva essere notevole.
Gadda e la Rodocanachi si conobbero, sembra, alle «Giubbe Rosse», presentati da Montale. Lei era allora una giovane donna appassionata di letteratura: per anni ricevette amici scrittori – da Sbarbaro a Montale, allo stesso Gadda – nella sua casa di Arenzano, e con loro collaborava spesso come traduttrice. Gadda era attratto dalla «gentilezza» di questa amica, ma la sua invincibile ipocondria lo irretiva in un rapporto dove la deprecazione di se stesso, le scuse e i sensi di colpa trionfavano.
Eppure, proprio attraverso tale rete di autoaccuse lievemente maniacali traspare in queste pagine la vita di Gadda, nelle sue delicate oscillazioni: faticosa, ombrosa, tanto più scrupolosa di rispettare le forme quanto più in essa si accumulava una temibile carica di violenza. Così anche una certa vita letteraria ed editoriale italiana di quegli anni – vita fatta in buona parte di modesti vaglia postali e di lunghe chiacchierate in qualche caffè – viene involontariamente evocata sullo sfondo di queste lettere: e l’involontarietà fa tanto più preziosa la testimonianza.
Ma ciò che innanzi tutto rende illuminante questo epistolario è proprio il suo disporsi in una sequenza, come scrive Gadda stesso, di «lettere espiatorie». Nel rapporto fra la «Gentile» Signora e la «gentilezza» di Gadda, qui magistralmente scandagliata in un saggio di Giuseppe Pontiggia, si celano trappole e inganni che ci fanno riconoscere, ancora una volta, in Gadda uno «dei grandi roditori del mondo borghese», che «se ne nutre mentre continua a scavarlo e cerca di non essere coinvolto nei cedimenti che provoca». E nella cupa cerimoniosità delle sue formule epistolari risuona il timbro di quella generale sofferenza e insofferenza che Gadda assai di rado si permette di chiamare per nome: «La realtà è: che sotto apparenze normali, bonarie, insomma passabili, la mia vita si svolge nella disperazione e nella stanchezza: un certo pudore estetico mi vieta di far pompa della mia croce: e il prossimo, alla stregua della mia faccia, mi giudica un volgare turista».