Jan Potocki
Manoscritto trovato a Saragozza
A cura di Roger Caillois
Biblioteca Adelphi, 3
1965, 10ª ediz., pp. XXXII-255
isbn: 9788845900389
Destinata a diventare uno dei classici della letteratura polacca, quest’opera scritta in francese all’inizio del 1800, ha avuto peripezie tra le più singolari che la storia della letteratura ricordi. Si deve al noto critico e scrittore Roger Caillois di averla riscoperta per il lettore occidentale pubblicando in Francia, nel 1958, la parte del testo originale arrivata fino a noi, e facendola precedere da una prefazione che racconta la complicata storia del libro: una storia di manoscritti smarriti, di pubblicazioni parziali a Pietroburgo e a Parigi, di plagi successivi (in cui troviamo implicati anche alcuni nomi illustri, come quelli di Charles Nodier e di Washington Irving) che mettono capo a un piccolo scandalo tra letterati e a un processo. Del testo integrale, andato smarrito, esiste solo, da oltre un secolo, una traduzione polacca, non sappiamo quanto fedele.
Jan Potocki, l’autore di questo libro, è un nobile polacco, appartenente all’alta società cosmopolita della fine del Settecento, di casa in tutte le capitali d’Europa, viaggiatore curioso e attento che soggiorna a lungo nel Marocco e si spinge persino, al seguito di un’ambasceria russa, ai confini tra la Mongolia e la Cina. Uomo politico illuminato, legato ad ambienti giacobini, poi consigliere privato dello zar Alessandro I, studioso infaticabile d’antichità, autore di lucide relazioni di viaggio e di opere storico-etnografiche (oggi lo si considera uno dei fondatori dell’archeologia slava), Potocki diede sfogo al sottofondo raffinatamente morboso del suo temperamento nel Manoscritto trovato a Saragozza, un’opera di fantasia che lo tenne occupato negli ultimi dodici anni della sua vita, fino al suicidio avvenuto nel 1815.
Il Manoscritto è una serie di storie di fantasmi, incapsulate l’una nell’altra come scatole cinesi: «un decamerone nero», si potrebbe definire, che tuttavia si stacca dal decorativismo esteriore e gratuito dell’«orrido» romantico per raggiungere l’allucinante suggestione dei grandi simboli indecifrabili. In esso si ritrovano tutti gli elementi del romanticismo nero, banditi e zingare, forche e cabalisti, caverne misteriose e locande malfamate, amori scabrosi e apparizioni diaboliche; ma al lettore attento non potrà sfuggire come tutto questo armamentario tradizionale soggiaccia all’ambivalenza di fondo dell’autore, che, da un lato, sente l’attrazione del magico e anche del macabro, dall’altro il bisogno «illuministico» di liberarsene. In questa tensione intima, una forza visionaria, che crea figure e favole che ci toccano profondamente, si apre la strada in mezzo a situazioni francamente comiche, buffonesche, spesso di puro stampo libertino. Gli effetti sorprendenti che ne derivano, forse anche per l’atmosfera spagnola di cui le storie sono impregnate, richiamano vivo alla nostra mente il nome di Goya, che Potocki conobbe e a cui è attribuito un suo ritratto.
Puškin rimase affascinato dal Manoscritto, tanto da cominciarne una traduzione in versi. Ma è solo oggi, dopo la riscoperta di Caillois, che questo libro si è rivelato a noi come un anello dei più preziosi in quella catena di narrativa che, partendo dalle Mille e una notte di Galland, e passando per il Vathek di Beckford, arriva alle sfrenate fantasie di Hoffmann e alla letteratura onirica dei nostri giorni.