«È il lavoro del poeta ... nominare l’innominabile, additare le imposture, prendere posizione, avviare discussioni, plasmare il mondo e impedirgli di addormentarsi» (Salman Rushdie).
Nei due decenni successivi alla rivoluzione di Khomeini, mentre le strade e i campus di Teheran erano teatro di violenze tremende, Azar Nafisi ha dovuto cimentarsi in un’impresa fra le più ardue, e cioè spiegare a ragazzi e ragazze esposti in misura crescente alla catechesi islamica una delle più temibili incarnazioni dell’Occidente: la sua letteratura.