Wallace Stevens
Aurore d'autunno
Biblioteca Adelphi, 619
2014, pp. 273
isbn: 9788845928697
Aurore d'autunno è il libro più trasparente di un poeta sovranamente arduo. Giunto alla soglia dei settant'anni, Stevens medita in pentametri giambici sulla propria vita, sulla poesia e, di fronte allo spettacolo incandescente della natura, accusa il fallimento dell'immaginazione. Ma lo fa, paradossalmente, in poemi perfetti, come Una sera qualunque a New Haven. Le aurore d'autunno, scrive nel novembre 1950 a Paule Vidal, sono «le notti di primo autunno che a volte a Hartford hanno lo stesso riverbero dell'aurora boreale». E la loro «effulgescenza artica» impone un nuovo registro linguistico: abbandonato il tono sublime, il vecchio poeta lascia che affiorino parole semplici, piane. È una vera e propria svolta, che ci rivela uno Stevens insolito, incline all'immanenza, a un appassionato rapporto con la terra. L'uomo è colto nel suo habitat naturale che è fatto di tempo atmosferico: se alza gli occhi al cielo le cose appaiono di una solitudine cosmica, e lo sguardo si abitua a un'assenza di rivelazione. È qui la novità delle Aurore. L'autunno non è la stagione keatsiana della bellezza dolce e matura: verso la fine della vita la realtà appare più povera di desiderio, più priva di speranza – e anche più vera. In questo senso Stevens è, non meno di Eliot e Pound, poeta dell'epoca moderna. Non a caso, Harold Bloom definirà la nostra non «l'età di Pound», ma «l'èra di Stevens». E Northrop Frye incoronerà Stevens come «uno dei nostri poeti essenziali».